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giovedì, 02 marzo 2006

Ma i voti si contano in Italia
di Giovanni Sabbatucci

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QUALUNQUE sia l'esito delle elezioni di aprile, i quaranta minuti di Silvio Berlusconi davanti al Congresso Usa saranno ricordati come uno dei momenti culminanti, come uno dei punti forti di quella frenetica rincorsa nella quale il presidente del Consiglio si sta impegnando allo spasimo, nel tentativo di rimontare uno svantaggio ritenuto dai più incolmabile fino a poche settimane fa. D'accordo, le premesse erano buone, a cominciare dall'esplicito e caloroso appoggio del presidente Bush; il contesto era favorevole, anche per la presenza di un pubblico amico capace di surrogare l'assenza di molti congressisti; la forma fisica del premier in apparenza smagliante.

 Ma è innegabile che a far centro siano stati i contenuti e i toni del discorso di Berlusconi. Il riferimento al debito di gratitudine contratto dall'Italia nei confronti di chi l'ha liberata dal fascismo sessant'anni fa e protetta dal comunismo nel successivo mezzo secolo sarà pure scontato, ma era doveroso. Ed è stato formulato (piaccia o meno il raccontino deamicisiano del bambino accompagnato dal babbo al cimitero dei caduti alleati) in termini tali da poter essere fatto proprio dalla maggioranza degli italiani, eccezion fatta per la consistente pattuglia degli antiamericani irriducibili che comunque non si collocano per lo più fra i potenziali elettori della Casa delle libertà.

Sul tema della guerra in Iraq e della lotta al terrorismo che invece rappresenta ai fini del consenso elettorale un punto delicato per l'attuale maggioranza il premier ha usato gli argomenti più moderati e i toni più morbidi che gli fossero consentiti dal suo fermo schieramento a fianco dell'alleato maggiore. In assenza di gaffes e di scivoloni propagandistici, ne è venuto dunque fuori uno spot di innegabile efficacia, tale da oscurare il colpo messo a segno da Prodi col suo incontro con il cancelliere Kohl. E l'opposizione se ne preoccupa giustamente, dal suo punto di vista, denunciando la sontuosa copertura mediatica del discorso da parte delle tivù berlusconiane come un'ennesima violazione della par condicio.

 La protesta, a prescindere dalla sua fondatezza sul piano formale, rischia però di essere controproducente, visto l'obiettivo rilievo dell'evento: non capita tutti i giorni che il capo del governo italiano parli al Congresso degli Stati Uniti. Meglio avrebbero fatto i leader dell'opposizione a collocare l'episodio in sé in una logica patriottica e bipartisan (non è comunque un male se chi rappresenta ufficialmente l'Italia fa buona figura al cospetto dei rappresentanti della maggiore potenza mondiale), sottolineandone invece la scarsa incidenza sui problemi che oggi sembrano preoccupare maggiormente gli elettori.

E' di oggi il verdetto dell'Istat su un'Italia a crescita zero nell'anno 2005. Ed è su questo dato, più che sulle sue performances all'estero o sulle sue presenze televisive, che il presidente del Consiglio dovrebbe essere chiamato a rispondere. Può essere utile, a questo proposito, richiamare gli scenari di oltre mezzo secolo fa, in particolare il precedente più illustre di un presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, fortemente aiutato dall'esplicito appoggio dell'alleato americano: appoggio sancito dalla celebre visita negli Usa del gennaio '47.

Quell'appoggio non sarebbe bastato a De Gasperi per stravincere le elezioni del 18 aprile '48, se non fossero intervenuti due fattori decisivi.

 Il primo, come tutti sanno, era rappresentato da un'opposizione che non nascondeva la sua ammirazione per Stalin e per il modello delle democrazie popolari dell'Est Europa. .......................

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